Pensieri nel viaggio

Dall’agenda escono fotografie, appunti, piccoli memo che dissemino nell’illusione di ricreare un ordine. Dico sempre che ci vuole armonia, ma forse la mia armonia sta in un disordine di cui godo quando, in silenzio, mi fermo e cerco i segni della scrittura. Come le briciole di pane di alcune fiabe, come i frammenti luminosi che Lucilla nota sospesi a fluttuare su un ponte nella storia di “La luce che brilla sui tetti”. Proprio l’altra sera a Busto Arsizio parlavo di questi frammenti e di quel ponte: in tutto il romanzo ho sparso verità impastate a fantasia, e quel ponte con i frammenti di luce e dolore sono profondissima e assoluta verità.

Non ho l’abitudine di chiedermi cosa sarebbe successo se… Se Mario non avesse avuto l’incidente, se oggi fosse ancora qui, incarnato, con le sue moto da folle e il nostro rapporto ondivago di amicizia, gratitudine, curiosità e competizione. Saremmo davvero altrove con un lavoro diverso, in un centro per la qualità della vita delle donne con tumore? Saremmo più o meno amici, più o meno evidenti nel nostro legame di anime che non si sono riconosciute fino in fondo? Esisterebbe il romanzo?

No, il romanzo non avrebbe questa forma, questo contenuto, questo titolo. “La luce che brilla sui tetti” sarebbe un altro libro, una forma indistinta che racconta altro. E la vita non si crea con i se: sono certa esistano da qualche parte (nei nostri Registri Akashici, forse) tutte le strade parallele e secanti, mi è dato ora di notare questa. In questa vita, nel qui e ora, Mario è una luce e i frammenti sul ponte stanno ancora fluttuando. Non ho mai smesso di guardare giù da quel ponte, di tormentarmi per il suo volo. E’ un volo che stride con il sorriso pazzesco, con quelle risate e la camminata goffa quanto la mia, con il casco sotto il braccio e la tuta nera e i ritardi cronici che mi facevano imbestialire.

Ogni volta che credo che la ferita sia quasi rimarginata qualcosa strappa via il cerotto e con il cerotto il tappo di fibrina (colpo basso da medico, lo so: alludo alla cosiddetta “crosta”), e il sangue sgorga. Non ho paura del sangue e nemmeno delle lacrime. Vorrei solo che non fosse accaduto. Rinuncerei volentieri al romanzo in questa forma, perfino al tour che mi sta dando tante gratificazioni, perché significherebbe riaverlo indietro.

“Ma io ci sono”: dice così e mi accarezza le spalle. Mercoledì ha piazzato la sua moto davanti all’ingresso del mio studio in via Plinio, così storta e fuori luogo che era impossibile non coglierne il significato. C’è, so che c’è ed è più che mai capace di dimostrarlo.

Eppure.

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